Ingmar Bergman ‘Lanterna magica’

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Di Marco Loprete

marcoloprete@libero.it

Che Ingmar Bergman fosse un grande regista era cosa risaputa. Che fosse anche un grande scrittore, beh, probabilmente un po’ meno. Chi volesse avere prova del talento narrativo del grande regista svedese, scomparso la scorsa estate assieme ad un altro maestro del cinema internazionale, Michelangelo Antonioni, non deve far altro che recarsi in libreria ed acquistare questo “Lanterna magica”. Non di un romanzo o di una raccolta di racconti o di poesie si tratta; e neppure della sceneggiatura di un film. Ma di un’autobiografia, nella quale Bergman ripercorre con sincerità a volte persino dolorosa, tutta la sua vita, dall’infanzia, segnata da un padre, pastore protestate, autoritario e freddo, e da una madre fedifraga e scostante, fino alla maturità, passando per la scoperta della magia del teatro (ed in particolare di quello di Strindberg, uno dei suoi autori preferiti in assoluto, che grande influenza ebbe sul suo modo di fare cinema) e del cinema (in primis attraverso la lanterna magica del titolo, un apparecchio che consentiva di proiettare su un muro delle diapositive, creando l’illusione del movimento).

Non si tratta della solita, pedante e un po’ patetica autocelebrazione: Bergman si racconta senza mostrare alcuna indulgenza nei confronti dei propri errori, personali e professionali (del resto, come cineasta era famoso per essere il primo e più feroce critico di se stesso). Il racconto, poi, non è orchestrato in maniera prevedibilmente lineare, ma procede a balzi, saltando continuamente da un periodo all’altro della vita del regista, sempre facendo in modo, però, che il lettore non perda il filo del discorso. Pubblicato per la prima volta nel 1987 ed ora ristampato dalla Garzanti, “Lanterna magica” è dunque un’occasione preziosa per entrare nell’universo di uno dei maggiori e più fantasiosi cineasti del nostro tempo.