Kierkegaard incontra Carl Theodor Dreyer e Ingmar Bergman

Dalla filosofia al cinema di due grandi Maestri.

 

 

 

 

Di Mariagloria ‘lipsticktraces’ Fontana

gloria777@alice.it

La trilogia di Bergman: Come in uno specchio(1961), Luci d’inverno(1962), Il silenzio(1963) 

Ordet(1955), Gertrud(1964) di Dreyer

Tre giganti a confronto

 

Lungo il corso degli anni la critica italiana ed internazionale ha discusso dell’ influenza del filosofo danese Søreen Kierkegaard nei due maestri del cinema Carl Theodor Dreyer e Ingmar Bergman. Le loro opere sono state frettolosamente associate all’ “esistenzialismo” più in generale. Sebbene ancor oggi il dibattito resti aperto a  nuove e più esaustive considerazioni abbiamo provato a tracciarne alcune linee tematiche.

L’assenza del fondamento e la ricerca della verità

Durante il Novecento emerge in tutta la sua urgenza la tematica dell’assenza del fondamento, della causa-sui, di un principio creatore che stabilisca valori e parametri universali cui far riferimento. La caduta dei simboli e la finitezza dei linguaggi, che non possiedono più la forza espressiva necessaria a rappresentare la società e gli individui che la compongono hanno generato un’afasia globale. È in questa situazione generale che maturano le filosofie esistenzialiste.

La questione dell’assenza del fondamento pervade il cinema di Ingmar Bergman e Carl Theodor Dreyer, in particolar modo nel periodo dei primi anni ’60 di Bergman, la cosiddetta ‘Trilogia del Silenzio di Dio’ e nell’ultimo Dreyer, quello di Ordet e Gertrud, le sue ultime opere. Nei due autori si rintracciano analoghe scelte ‘etiche’ che si esplicano nella loro filmografia.

Entrambi indagatori dell’anima, attraverso la macchina da presa percorrono il paesaggio del volto umano. Ambedue nordeuropei  respirano un‘aria fredda e desolata che ha radici nel pensiero del filosofo danese. Come quest’ultimo, ma attraverso il linguaggio cinematografico, hanno ricercato la verità.

Secondo Kiekegaard la ragione da sola non può bastare a comprendere una verità che non è mai “assoluta”, come promulgano le tesi hegeliane. Kierkegaard ha dissolto la ragione, ha confutato Hegel. La tesi promulgata da quest’ultimo si basa su una dialettica oggettiva e sistematica, mentre quella kiergaardiana è una dialettica ‘qualitativa’ e ‘soggettiva’. In altri termini, Kierkegaard pone al centro del suo pensiero l’individuo. Pertanto il filosofo, il teologo e lo studioso in generale non possono teorizzare né arrivare a tracciare alcun sistema oggettivo per qualificare la verità assoluta: “In questa dialettica soggettiva (…) l’uomo si appropria della verità che salva, è spezzata l’identità hegeliana soggetto – oggetto e messa in crisi radicalmente la concezione immanentista”.[1]

Nessuna speculazione filosofica, né alcun metodo d’indagine, né sintesi storica per Kierkegaard possono cogliere l’esistenza dell’individuo. L’unica categoria presa in esame è ricondotta a quella del singolo. Il solo criterio possibile è la  scelta, la decisione in opposizione alla categoria hegeliana della necessità.

Così anche in Bergman e Dreyer, l’identità soggetto – oggetto si è dissolta e con essa la ragione hegeliana, comportando una profonda scissione fra interno ed esterno, fra Io e Mondo e con ciò la conseguente caduta di una ragione esibita a verità assoluta. Nella sua opera di astrazione –  nel sostituire alla realtà obiettiva la propria concezione soggettiva – si avverte, da film a film in misura diversa, quella divisione fra interno ed esterno da Dreyer assunta ad ideale artistico. Altra, e non ultima “spia” del legame che, attraverso tutta una cultura, lo unisce a Kierkegaard, alla polemica da questi condotta contro Hegel, contro la “concezione per cui l’interno e l’esterno, nella realtà oggettiva, e quindi anche nell’uomo, costituiscono un’unità dialettica, che cioè, nonostante tutte le differenze sono tuttavia indissolubilmente connessi”.[2]

Nel suo approdo all’ateismo religioso con Gertrud, sia nei precedenti film – in cui era riconosciuto il rapporto con Dio, – i personaggi del cineasta vivono in un “incognito totalmente impenetrabile ad altri uomini, imperscrutabile a ogni forza umana”.[3] Così come i personaggi di Bergman “Ognuno chiuso nella sua cella” afferma Minus in “Come in uno specchio”.

I tre stadi del singolo nel cinema di Bergman e Dreyer

Per Kierkegaard non si perviene a Dio attraverso il Cristianesimo come religione storicamente rivelata. Si giunge a Dio, alla fede, all’Assoluto, solo tramite il proprio percorso individuale, intimo e sofferto. Decisive in tal senso sono le scelte di vita che si presentano all’uomo, teorizzate nei tre stadi dell’esistenza: estetico, etico, religioso (per maggiori approfondimenti rimandiamo alla lettura delle opere del filosofo) .

I personaggi bergmaniani osservano la superficialità della loro esistenza, rilevano la vanità del tutto come il Don Giovanni kierkegaardiano amano il piacere immediato e si collocano proprio nel salto della vita che va dallo stadio estetico allo stadio etico. Si trovano in questo trapasso, nel bel mezzo del salto ma non lo compiono.

Uno dei protagonisti di Come in uno specchio, David, ne è l’emblema, ma non ha il coraggio necessario per compiere il cambiamento e continua ad osservare il fallimento della propria vita. David resta vittima della disperazione, la avverte, ma non sa attuare alcun movimento in sé.

La vita etica è uno stadio più consapevole rispetto a quello estetico. L’uomo prende finalmente coscienza di sé e dei suoi rapporti col mondo e la società. L’uomo etico vive autenticamente i rapporti umani e sociali; al contrario dell’esteta, del Don Giovanni seduttore, non fugge le responsabilità, sceglie se stesso e i rapporti interpersonali. Esemplificativi di questa fase sono la figura del marito e l’elogio del matrimonio. I personaggi di Ordet raggiungono questo stadio dell’esistenza e si relazionano attraverso il legame del matrimonio e, dunque, dell’amore coniugale. In sintesi, in questo stadio dell’esistenza si accettano la continuità della propria vita e la ripetizione. Quest’ultima consente di riaffermare il passato accogliendo le responsabilità di amare la stessa persona, i medesimi amici e professione. Ne consegue l’inserimento dell’individuo nella società, ancora di più, l’accettazione da parte dell’uomo di una legge riconosciuta universalmente, quella della vita, civile e sociale.

Nessuno dei personaggi di Dreyer e Bergman, invece, incarna lo stadio religioso, nessuno compie il salto nella fede.

Kierkegaard e i due cineasti credono in una verità soggettiva frutto della libertà di scelta tra l’essere e il suo poter essere. Tuttavia, personaggi come Karin, Tomas Ester nella presunta trilogia bergmaniana, pur essendo coscienti delle proprie potenzialità e vedendo ciascuno il fondo del proprio essere, non sanno compiere la scelta definitiva e rinunciano all’unica possibilità possibile, il salto nella fede, in Dio, sprofondando nella disperazione.

Al più, i personaggi dreyeriani approdano allo stadio etico, ma non approdano allo stadio definitivo, non si mettono in rapporto personale con Dio, con l’Assoluto. Sono tutti vittime della malattia mortale, che per Kierkegaard è la disperazione:l’impossibilità di scegliere se stessi fino in fondo. Dunque la vera malattia mortale è la mancanza di direzione, di scelta, il non credere. Esemplificativo in tal senso è il pastore di Ordet: i miracoli oggi non avvengono più. Anche  nel finale di “Luci d’inverno”, Marta, unica spettatrice della messa celebrata da Tomas in una chiesa vuota, pur avvertendo la propria disperazione, non riesce a credere. “Ah se potessi credere in una qualunque cosa, se potessimo credere!

L’abbandono di Dio

Altro tema essenziale per una maggiore comprensione della trilogia bergmaniana è l’abbandono di Dio, come pure senza Dio vivono i personaggi di Dreyer in Ordet e Gertrud.

Se non si crede più in Dio, come sostiene Gertrud “vorrei poter credere in un Dio per chiedergli di proteggerti”, rivolgendosi al suo amante, se dio ha abbandonato gli uomini, come afferma Tomas, in  Luci d’inverno, allora l’uomo non possiede più alcuna certezza a priori cui appigliarsi e dalla quale determinare i propri valori, nessuna morale sociale né una condotta. In definitiva l’uomo non ha più una Legge, un peso regolatore che gli permetta di articolare la sua vita. L’uomo è abbandonato da Dio e l’esistenzialismo asserisce: l’uomo è gettato nel mondo. Sartre a tal proposito sostiene: “l’esistenzialista pensa che è molto scomodo che Dio non esista, poiché con Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile; non può più esserci un bene a priori poiché non c’è più nessuna coscienza infinita e perfetta per pensarlo; Se d’altro canto Dio non esiste, non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini che possano legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo né dietro di noi né davanti a noi, nel luminoso regno dei valori, giustificazioni o scuse. Siamo soli, senza scuse”.[4]

In ab-sentia di Dio la fede per Bergman è scegliere se stessi: “ così non ho altro fine se non me stesso. È una specie di verità. È una verità mia personale, o una verità a tre quarti, o una verità inesistente se non per il fatto che essa ha valore per me”.[5]

Il cineasta svedese, sondato il cammino dell’uomo, approda ne Il silenzio all’unica  rivelazione possibile, quella dell’anima: “alma”, che in greco significa “anima”, è il nome di una delle protagoniste più intense di un suo celebre film (Persona); “anima” c’è scritto sul biglietto che Ester, come eredità, lascia al nipote, l’unica parola che è riuscita a comprendere della misteriosa lingua della fantomatica città di Timoka.

Anche Dreyer perviene, con Gertrud, alla scelta consapevole, al libero arbitrio, che nella sua eroina tragica raggiunge l’apice nell’ auto-isolamento.

Per Bergman l’uomo deve spingersi sino negli abissi reconditi di se stesso, deve affrontare i suoi demoni, se li accetterà e imparerà a conoscere, a convivere con essi, allora potrà incontrare l’Altro, se riuscirà a denudarsi di fronte a se stesso forse poi potrà mettersi di fronte a Dio, poco importa se vi perverrà:  Tu devi celebrare la tua messa, se è per Dio si vedrà,[6] ricorda il monito paterno. Il cineasta sembra affermare che non c’è alcuna metafisica, alcun trascendente possibile al termine della sua ricerca.

Al contrario, Dreyer ha creduto in una strana commistione fra razionalità e percezione, come lui stesso ha sovente dichiarato, nella coesione fra scienza esatta e religione intuitiva.

I due Maestri hanno appreso la lezione kierkegaardiana, ma come il filosofo, non sono riusciti ad incarnare le proprie idee, a fare di se stessi un esempio etico vivente, sono soltanto dei portavoce attraverso le loro opere di un’anima che riflette, sente la vita sin nel profondo.

Bergman e Dreyer nei cinque film pervengono ad una concezione di esistenzialismo, che, per dirla con Sartre, è un “umanismo”, è l’essere con teorizzato da Heidegger (ampliamente ‘personalizzato’ da Sartre nella seconda parte de ‘L’Essere e il Nulla’). Vale a dire che forse l’unico trascendente possibile è nella relazione con l’altro, poiché nello sguardo altrui siamo nudi, svelati. Non si può vivere da soli, affermano i due autori. Ed è proprio ciò che percepiscono i personaggi di Bergman nella terra di confine di Farő, nella chiesa vuota di Tomas, nel silenzio della città fantasma Timoka, dove si parla una lingua incomprensibile e la solitudine attanaglia tutti i protagonisti.

È l’incomunicabilità che semplicisticamente si risolve in una fede alla quale ci si aggrappa disperatamente e a cui non si riesce veramente a credere, soltanto perché non avvengono più miracoli, in ‘Ordet’; ed è la medesima solitudine dei rapporti solipsisti fra Gertrud e i suoi compagni.


[1] Salvatore Spera, Introduzione a Kierkegaard, Laterza, Roma-Bari, 200, pag.84

[2] Guido Aristarco, Introduzione in Cinque film, Carl Theodor Dreyer, Einaudi, Torino, 1967,  p.56

[3] Ibidem

[4] Jean Paul Sartre, L’Esistenzialismo è un Umanismo, Mursia, Milano, pp.39-41.

[5] Ingmar Bergman, Il dito mignolo di un gigante, in Cinema Nuovo, Milano, a. VIII, n.139, maggio-giugno 1959.

[6] Ingmar Bergman, Lanterna magica, Garzanti, Milano, p. 245.