Lars von Trier ‘Il Grande Capo’

Di Marco Loprete

marcoloprete@libero.it

Kristoffers (Jens Albinus), attore fallito e squattrinato, accetta di impersonare il “grande capo” di una società di informatica danese su proposta di Ravn (Peter Gantzler), all’apparenza semplice impiegato ma in realtà effettivo padrone dell’azienda. L’obbiettivo è quello di condurre in porto, all’insaputa degli altri dipendenti, la cessione dell’impresa. Da qui una serie di equivoci che sfoceranno in un finale dai tratti marcatamente assurdi.
Ultimo parto del geniale Lars von Trier, ‘Il Grande Capo’ è qualcosa di più e di diverso da una commedia. E’ piuttosto di saggio metacinematografico su di essa – e, in definitiva, sul cinema tutto – per via della marcata presenza, nella pellicola, di quella tendenza, tanto cara al nostro, di giocare con lo spettatore a carte scoperte, scomponendo il film e mostrandone il processo di costruzione. Esemplare, al riguardo, è la prima inquadratura: questa ci mostra chiaramente il regista dietro la macchina da presa riflesso nel vetro di un grattacielo. E non si tratta di un errore, una svista: lo stesso von Trier lo dichiara apertamente. “Questo sono io”, dice; e lo spettatore che non abbia mai visto un suo film è ben avvertito.
Non c’è solo questo, però, di metacinematografico. Prendiamo il rapporto tra il “grande capo” (ed il fatto che sia un attore è già di per se sintomatico) ed il suo mentore, il mediocre …: è evidentemente assimilabile ad un rapporto di tipo regista-attore, con la gelosia (e le insicurezze) del primo, oscurato dall’interpretazione della “star” (oscuramento che però gli è anche di comodo, giacchè gli consente di non assumersi alcuna responsabilità), e il naturale, nevrotico egocentrismo del secondo, abituato ad essere al centro dell’attenzione e dunque sofferente quando questa gli viene negata (ed in questo senso la sfiancante pantomima messa in piedi in conclusione trova una sua giustificazione).
Non solo il capo “finto” e quello “vero” sono attori; anche gli altri personaggi che popolano l’universo di questa piccola azienda di software sono a loro modo “caratteri”: c’è il depresso-aggressivo, la disinibita, l’isterica, la dolce fidanzatina e lo psicolabile. La sensazione che si ha osservandoli è che, più che una squadra di collaboratori di una moderna azienda, si tratti di figure degne di una terapia di gruppo.
In definitiva, dunque, la domanda che il film pone, partendo da questa prospettiva metacinematografica, è alta e complessa da affrontare, e riguarda le dicotomie pirandelliane tra vita e forma, realtà e finzione, sostanza e apparenza; insomma, uomini o attori. Tutti recitiamo, sembra suggerire von Trier: la vita è un gioco delle parti. Ma non c’è pietà nello sguardo del regista. Non è un esistenzialista: il suo sguardo è ironico, ma l’ironia maschera un gelido nichilismo. Il fatto che lo sfondo di questo affresco meravigliosamente assurdo sia una società di informatica (uno dei simboli del capitalismo odierno), può però piegare il film ad un’interpretazione meno ampia e più circoscritta, tutta “politica”: in questo senso, Il Grande Capo può essere letto come una satira graffiante sul capitalismo, rappresentazione di un mondo dominato da figure mediocri dedite alla menzogna e a tutta una serie di pratiche squallide.
Indipendentemente da come lo si voglia interpretare, Il Grande Capo, con le sue battute fulminanti, le sue “stranezze”, lo stile visivo inconsueto (merito dell’ Automavision, un programma computerizzato elaborato dal regista per prestabilire le inquadrature e i movimenti della macchina da presa senza l’intervento umano) e la bravura degli interpreti (alcuni dei quali già figuravano in un’altro capolavoro del regista danese, ‘Idioti’), è uno dei migliori capitoli della produzione cinematografica di Trier. Da vedere a tutti i costi.