15th Festival Of Experimental Music


15th Festival Of Experimental Music

15,16,17-Dicembre-2006, Londra

Di Alfio Castorina

liquidtree@gmail.com

Quindicesima edizione del London Musicians Collective Festival e il sottoscritto folle al punto giusto da volare sino a Londra per seguire l’evento. Mi pare quindi giusto fornire un breve resoconto della manifestazione per i lettori di Kathodik. L’LMC giunto ormai al trentesimo anno di attività è da sempre dedito alla promozione e alla diffusione della musica sperimentale ed improvvisata e negli anni passati ha ospitato personaggi del calibro di Derek Bailey, Pauline Oliveros, Charlemagne Palestine, Alvin Lucier, AMM, Evan Parker e Jim O’Rourke tanto per fare qualche nome a caso. Sede del festival, che da qualche anno opera avvalendosi della collaborazione della radio sperimentale Resonance FM, l’Institute Of Contemporary Arts (ICA) che secondo alcuni detrattori spocchiosi produce in gran parte spazzatura. Dopo aver faticato un pochetto per trovare la location dell’ICA, che pur trovandosi presso il Mall (in pratica l’enorme viale che congiunge Buckingham Palce con Trafalgar Square), si trova ben nascosto dietro un piccolo portoncino e che nessuno dei passanti interpellati sembra aver mai sentito nominare, e dopo aver fatto la conoscenza di Richard Pinnell che gestisce l’ottima e neonata Cathnor Records oltre a condurre il programma radio Audition , posso prendere posto a sedere per seguire la prima delle tre serate del festival. Le strade attualmente intraprese dalle frangie più avanzate della musica impro ormai le conosciamo bene: sinewaves, riduzionismo (a proposito del quale Richard mi anticipa che uno dei prossimi dischi Cathnor sarà un lavoro del collettivo MIMEO, della durata di circa 45 minuti, di cui solo 5 udibili), feedback, suoni parcellizzati e scomposti e via discorrendo. Tali ingredienti solo in parte caratterizzeranno il festival che è abbastanza intelligente da attingere a destra ed a manca, mescolando elettronica, elettroacustica, free jazz, nomi nuovi e vecchie, ma sempre attuali glorie. Non posso fare a meno di notare subito due cose: la scrupolosa osservanza degli orari previsti per le performances e la compostezza e l’attenzione maniacale del pubblico. Forse sono male abituato dai rari eventi che si svolgono qui a Catania, dove nella maggior parte dei casi se un concerto è previsto per le 21, verso le 23 si aprono le porte e verso le 24 (forse) si inizia a suonare. Per non dire del pubblico che è in grado di ridere e parlare durante degli spettacoli che ESIGONO un bel po’ di silenzio (mi riferisco ad una recente esibizione del grande John Tilbury, disturbata non poco da diversi cafoni). Qui invece non si transige, i concerti iniziano alle 19:30 in punto e la gente osserva un rigoroso silenzio, chi non è interessato sta a casa e non rompe.

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La prima serata si apre con l’esibizione del duo composto dal sassofonista inglese Tom Chant e dal chitarrista libanese Sharif Sehnaoui. Bastano poche “note” per capire che ogni forma convenzionale di approcciare i rispettivi strumenti è stata messa al bando. Respiri soffocati, borbottii e schizzi di fiato per Chant e la chitarra usata come semplice scatola con attaccate delle corde da percuotere e sfregare, usando anche diversi aggeggi, per Sehnaoui. Performance che si caratterizza per il contenimento della sua esecuzione, con dialoghi tra i due molto sparsi e misuratissimi. Molto bello, in particolare il sax di Chant che sposta ancora più in là l’astrattismo dei vari Butcher, Rainey e simili, ma il tutto non riesce a produrre un soddisfacente sviluppo della trama musicale. Verso la fine qualcosa sembra emergere, i due intraprendono dialoghi più fitti, sembra il preludio a qualcosa di più grande della semplice bellezza dei suoni, ma ecco che d’improvviso finisce. Peccato, ma sono certo che in futuro non mancheranno le sorprese, del resto si tratta di musicisti giovanissimi.

Si prosegue con il laptopper olandese Roel Melkoop, che parte alla grande. Suoni profondi e molto cupi, che in parte tradiscono origini concrete, e un atmosfera gotica. Un sinistro ed occasionale battere ritmico mi fa pensare a qualche forza oscura che bussa alle porte della nostra realtà. Purtroppo quello che segue non suscita lo stesso interesse, Roel inizia ad intraprendere una miriade di strade diverse e in parte sciupa quella tensione che così bene aveva costruito prima. Non giova neanche il fatto che le cose sembrano andare un po’ troppo per le lunghe.

Il supergruppo Anode, messo in piedi da Otomo Yoshihide, sicuramente rappresenta una delle performances più attese. Numerosa la formazione, con nomi più o meno noti, che comprende, spero di non dimenticare nessuno, oltre allo stesso Otomo, Andrea Neumann, Sachiko M, Rhodri Davies, Tim Barnes, Ishikawa Ko, Ichiraku Yoshimitsu, Masahiro Uemura, Sarah Washington, Tom Chant,  Mark Sanders, Angharad Davies e l’italiano Stefano Tedesco. Quest’ultimo, conosciuto per qualche scambio di battute, ribadisce il concetto, già annunciato dalla presentatrice del festival (autrice di una serie di spassose gaffes), che l’esibizione consiste di due parti, quiet e loud. All’inizio la parola loud non m’impressiona affatto, la sera prima sono stato ad un concerto degli Hotsogitsu e anche lì il volume era spaventoso, ma sarò costretto a ricredermi. La parte silenziosa è pura magia, sicuramente il punto più alto raggiunto dal festival. Silenzio irreale in sala, quasi una seduta di meditazione zen, gente con gli occhi chiusi e la testa tra le mani, al punto che un tizio che si alza per andare in bagno sembra compiere un gesto sconvolgente. Pochi suoni, distillati con sapienza, silenzi che adornano e magnificano ogni gesto: una sottilissima sinusoide, un leggero sfiorare i piatti della batteria, un impercettibile colpo al gong, un delicato sfiorare le corde dell’arpa e via discorrendo. Attimi di pura ipnosi collettiva, istanti che sembrano eternità. Di grande efficacia il posizionamento dei musicisti, disposti attorno al pubblico, che da quella magnifica sensazione di trovarsi “dentro”. Lo so, ridurre i suoni e l’attività musicale, sino a sfiorare lo zero assoluto è una prassi ormai usata ed abusata, ma questo nulla toglie alla bellezza della versione quiet di Anode, vera e propria sinfonia del non detto, delle cose in mezzo, degli spazi immaginari, di vuoti pienissimi.

Inizia la parte loud. Ed è il panico. Vedendo la primissima reazione del pubblico penso a delle galline in gabbia torturate con dei clacson. Un volume assurdo, spaventoso, al quale molti sembrano essere preparati visto l’abbondare di earplugs in sala. Ma non il sottoscritto, che teme per i propri timpani. Tutto quello che prima era stato trattenuto qui viene esploso in un atmosfera da impazzimento collettivo. Tim Barnes sembra posseduto da chissà quali forze demoniache, Stefano Tedesco (che dirà di aver suonato quasi in trance) testa la tenuta del suo vibrafono, sottoposto a vere e proprie sevizie, gli altri non sono da meno. Una cacofonia forsennata, sicuramente liberatoria (specie per i musicisti), quasi ritualistica, ma la pressione sonora è veramente eccessiva. Parte della “musica” riesco solo ad immaginarla, ho le dita ficcate nelle orecchie sino a toccare i timpani.



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Dopo una giornata passata passeggiando in lungo e in largo per le vie di Londra, un po’ di shopping turistico da Harrods e una visita al negozio di dischi Sound323 gestito dal musicista Mark Wastell inizia la seconda serata.

Si parte con con il duo greco Texturizer e con la loro performance audio/video. Nulla di particolarmente impressionante a dire il vero, non tanto per la musica che tutto sommato non dispiace affatto, ma il concerto sembra un semplice playback del loro ultimo cd 7 su Antifrost e lo sforzo esecutivo live appare abbastanza limitato. Un suono macina-tutto, un enorme vortice che sembra risucchiare la materia per poi sfociare in suoni frenati ed allarmanti (dove si sente anche il suono del violoncello di Nikos Veliotis, che però mi sarei aspettato di vedere in scena e non su qualche file) prima di distendersi su un lungo effetto droning in continuo sali-scendi. Interessante la parte video, nel suo minimalismo in bianco e nero, che dopo avere proposto un continuo flickering di patterns lascia intravedere forme che sembrano rivelare un qualcosa di familiare ma permangono nella loro ambiguità non risolta. Alla fine rimangono solo tre sorgenti luminose puntiformi che nel loro lento spegnersi accompagnano l’agonia della musica.

La tedesca Andrea Neumann propone il suo set usando l’inside piano (vero e proprio strumento totem e colpisce l’attenzione maniacale con la quale Andrea ne segue la successiva rimozione dal palco) ed electronics. Quello che viene eseguito sono dei frammenti di suoni texture molto affascinanti anche se privi di qualsiasi contiguità logica. Notevoli i momenti in cui un insistente pulsare viene prima scatenato, poi rallentato e infine drammaticamente troncato di netto per lasciare posto ad un suono escoriante, agli effetti metallici delle corde manipolate del piano e una parte finale tutta segnali, tremori, oscillazioni impossibili, corde tesissime, puntellamenti e cupe premonizioni. Sicuramente una straordinaria capacità di controllo e morphing fulminante, per una policromia espressiva apparentemente illimitata.

Da molti criticato, il duo Tim Barnes, percussioni e Ishikawa Ko, sho, per me è stato uno degli highlights del festival. Una delle principali obiezioni da parte degli scettici, la limitata capacità espressiva dello sho, ma alle mie orecchie ci sono stati momenti di grande poesia. Stralci di antiche melodie perse nel tempo come trasportate dal vento e il continuo, incessante, fantasioso lavorio di Tim Barnes con suoni prevalentemente microscopici. Quando la delicatissima manipolazione del gong produce suoni appena percettibili, quasi immaginari e su di essi fluttua il pianto austero di Ko è pura magia. Senza dire del fatto che vedere Barnes all’opera, anche solo da un punto vista gesturale è uno spettacolo mica da poco.

Chiude la seconda serata uno dei nomi storici dell’avanguardia, il francese Bernard Parmigiani, e fa una certa impressione vedere questo arzillo vecchietto con il suo synth sfidare le nuove leve. Due i lavori proposti, entrambi multicanale, tra cui l’anteprima inglese di Au gré du souffle le son s’envole. Suoni leggeremente datati nella loro epica e grandeur cosmica ma comunque di grande effetto: enormi masse in movimento, baluginare di forme, scontri di nebulose, forze che creano e distruggono. Giova sicuramente la resa multicanale, impressionante, che letteralmente materializza i suoni e dona tridimensionalità alle opere.

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Apre l’ultima serata il duo composto dal batterista Chris Corsano e dal bassista John Edwards, sicuramente l’esibizione più tradizionale con le sue frenetiche movenze free-jazz. Gran dispiego di tecnica ed energia per entrambi, con Corsano che sembra una macchina di ritmi frastagliatissimi e cinetici ed Edwards che non manca di violentare il suo strumento, maltrattandone le corde, infierendo con l’archetto e percuotendone il corpo. Ad un certo punto, dopo un istante di stop, parte un urlo (d’apprezzamento) da uno del pubblico, tutto sembra finito e l’annunciatrice si avvicina al centro dello stage, subito bloccata da Corsano, “we haven’t finished yet”, e si prosegue per altri 4-5 minuti.

Electronics e chitarra (mai sfiorata) per Tomas Korber, che nonostante una grave intossicazione alimentare (qualche schifezza mangiata per le strade di Londra ?) riesce comunque a portare a termine la sua esibizione. Per ogni evenienza pare che qualche busta di plastica fosse comunque presente sul palco. Grossolanamente il set si compone di due parti. Nella prima suoni in continua accumulazione ed ascesa, con in background un pattern ostinato e molto efficace, mentre nella seconda stratificazioni noisy che sfumano in sibili ad alta frequenza poi inghiottiti dal silenzio. Prosegue la logica attack-sustain-decay di alcuni brani di Effacement e la sapiente esplorazione dello spettro frequenziale. Semplice, uncomplicated e bello.

Gran delusione per quello che era il debutto londinese, parecchio atteso, di Olivia Block, artista che ho sempre ammirato e la cui ultima fatica Heave To reputo essere uno dei dischi dell’anno. Un’esibizione stanca e svogliata in cui Olivia si limita a riprodurre dei suoni registrati, dallo stesso procedere tempestoso del cd di cui sopra, e ad aggiungervi un banalissimo tambureggiare su una sorta di Zither. Solo 20 minuti scarsi (e spiace sentire dire a qualcuno che erano anche troppi), di cui alcuni ulteriormente rovinati dal fastidioso fruscio provenente da uno degli speakers, che lasciano l’amaro in bocca. Sarà che il tempo gioca dei brutti scherzi, ma conservo dei bei ricordi di un’esibizione catanese della Block, circa 5-6 anni fa. Chissà, forse l’attuale modus operandi della musicista è talmente influenzato dal lavoro in studio da lasciare poco spazio a sviluppi live, in quel caso meglio lasciar perdere.

Chiude quest’edizione del festival l’insolita coppia formata da Ben Patterson e dal maestro Keith Rowe. Del primo non so niente, solo che è stato parte, unico componente di colore, del movimento artistico Fluxus e all’ICA si mormora che riuscirà a dare un tocco di stranezza alla musica di Rowe. In realtà si tratta ben più che un semplice tocco e quello che viene proposto è un set surreale e straniante, tra teatro dell’assurdo e musica, assolutamente esilarante nei suoi effetti. Difficile descrivere per bene quello che succede, bisognava esserci e basta. Da subito si capisce che quello che sta per andare in scena non è la solita minestra riscaldata. Rowe, Patterson e un assistente appaiono con dei camici da scienziati e iniziano a riempire d’acqua tre abbeveratoi per uccelli che gocciolando asincronamente su una bacinella amplificata producono un ritmo minimale. L’assistente viene lasciato a prendere appunti sullo stato delle tre vaschette mentre Rowe e Patterson iniziano a strappare dei fogli di giornale, sempre amplificandone gli effetti acustici, fogli che vengono anche distribuiti al pubblico invitato a partecipare. Seguono altri momenti assurdi, con Patterson che si lustra le scarpe e si spazzola i capelli usando uno spazzolino da denti, prima di lasciare il posto ad una parte più prettamente musicale. Nel mezzo di questa, tra le altre cose, viene eseguito uno stralcio della monumentale piece libera Treatise di Cardew, vengono amplificate pietre, squilla il cellulare di Rowe, abbondano le manipolazioni della table guitar (o quello che ne rimane), appare la radio che capta alcuni motivi jazz e Patterson suona con l’archetto uno strano strumento a corde. La bizzarria, che in qualche modo tutto suo dispensa anche momenti musicalmente interessanti, si conclude con Patterson che spara delle palline di ping-pong e Rowe che tenta (riuscendoci) di prenderle al volo usando i piatti di una batteria. Gran spettacolo, pubblico estasiato e divertito