Leroy Jenkin’s Driftwood ‘The Art Of The Improvisation’

(Mutablemusic/Ird 2005)

L’”arte dell’improvvisazione”: così Leroy Jenkins, uno dei più importanti violinisti/compositori del jazz contemporaneo, titola il suo ultimo lavoro.

Si tratta di una estesa ‘suite’ in 4 movimenti, To Live (Allegro Moderato), To Sing (Andante Cantabile), To Run (Vivace), To Believe(Pure Motion), nella quale si intendono idealmente associare diversi aspetti della creazione musicale estemporanea alle quattro azioni basilari dell’esistenza quotidiana: vivere appunto e poi cantare, correre e credere.

Il risultato è un’opera difficile ma appagante, davvero una bella testimonianza della maturità raggiunta da questo fondamentale per quanto poco (ri)conosciuto musicista.

Jenkins, classe 1931, è stato protagonista per proprio conto o in seno all’AACM, di tutta la stagione creativa (se vogliamo ancora inconclusa) del movimento post-free di Chicago contribuendo al rinnovamento del linguaggio jazz e non solo.
Sin dal mirabile “Three compositions of New Jazz” inciso con Anthony Braxton e Wadada Leo Smith nel lontano 1968, il violinista si mostrava interessato ad una musica che convogliasse il libero processo improvvisativo in una dimensione sonora cameristica, accogliendo influenze dall’ambito colto, dalle prassi musicali tradizionali (sopratutto orientali) e, naturalmente, dal jazz.

Peculiare è sempre stata la sua concezione compositiva e strumentale.
Vi riveste un ruolo fondante la ricerca materica intorno al suono con il più minuto trascolorare melodico e, dal punto di vista dell’organizzazione formale, la strategica distribuzione nello spazio delle ‘voci’ impegnate.

In quest’ultimo progetto, denominato ‘Driftwood’, le voci sono quelle di Denman Maroney uno dei più inventivi pianisti in circolazione (andate ad ascoltarlo nei magnifici cd pubblicati ultimamente con Mark Dresser, primo fra tutti “Aquifer”del 2003) e specialista del piano preparato; Min Xiao-Fen , virtuosa per la cui pipa (il liuto classico’ cinese) Ned Rothenberg, complici John Zorn e Erik Friedlander, ha composto un singolare concerto con cello e percussioni; Rich O’Donnell, percussionista assai duttile, a suo agio sia in contesti improvvisativi che in seno alla St.Louis Symphony Orchestra.

Se in To Live è il violino di Jenkins a rivestire il ruolo del ‘canto’ emergente da una brulicante trama polivoca ordita dal pianoforte, da una ‘sliding pipa’ e dalle percussioni, in To Sing ogni singolo strumento, a turno, si ritaglia una personale cadenza solitaria: qui emergono le doti trasversalmente comunicative, liriche ma tendenti all’astrazione di Xiao-Fen e Jenkins come pure la grande abilità di Maroney nell’inventare microvariazioni timbrico-melodiche su piccoli riffs percussivi o angolose frasette di due o tre note.

Tuttavia è negli ultimi due movimenti, To Run eTo Believe, che la musica cattura maggiormente: del primo colpiscono la distorsione timbrica, le dinamiche forti vicine alla saturazione che producono l’effetto di un’irrisolvibile tensione; del secondo, quieto e coinciso, l’arioso candore dei ‘ghirigori’ del violino allo stesso tempo ancestrale e moderno.

E di fatto, passato e futuro sono magicamente fusi in questo piccolo ‘trattatello sapienziale’ sull’improvvisazione in musica.

Voto: 7

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