Blues

Due chiacchiere, un pò di storia, due dischi e il benvenuto di Kathodik ad un nuovo collaboratore.

Di Claudio Stick’em Blues
      bluesejazz@libero.it

Welcome to the overdue blues journey, at last! Mi verrebbe da rispondere, era ora che ci fosse uno spazio dedicato ad un genere che attecchisce in uno sfondo culturale nero! Questo è il Blues.
Vorrei cominciare subito evidenziando che la musica nera, anche al livello più commerciale e popolare, è una realtà che ha radici nella storia. Anche ad una analisi superficiale è naturale immaginare una vocalità ”nera’’ quando si pensa ad una musica che abbatte il più possibile la frammentarietà tra l’interpretazione e l’interiorità che si vuole estrinsecare.
Quando si comincia a parlare di un argomento relativamente nuovo spesso si richiede una definizione, cercherò di farlo ma più tardi e, soprattutto, nel modo più semplice ed allo stesso tempo più esaustivo possibile.
E’ necessaria una breve disamina storica per il semplice fatto che il blues è talmente radicato nelle due variabili spazio-tempo da non poter essere compreso senza valutare alcuni risvolti storici.
Infatti ogni passo compiuto dalla comunità di colore verso la libertà e l’integrazione equivale ad un essenziale capitolo della storia musicale.
Occorre risalire agli inizi del Settecento quando negli USA il numero degli schiavi, che venivano sfruttati nella raccolta del cotone e del tabacco, superava appena il milione. Numero, questo, destinato a salire alla cifra di quattro milioni e mezzo al deflagrare della guerra Civile nel 1860.
Nel percorso verso l’integrazione sociale essenziale è il ruolo svolto dalla chiesa. Essa aiutò i neri a fuggire dallo stato di segregazione in cui vivevano, concedendo loro una sede nella quale comunicare con maggior grado di libertà  rispetto a quello che offrivano i campi di lavoro, per questo, quindi, il tempio era un luogo avulso da ciò che la quotidianità li portava a sopportare.
Con la fine della Guerra di Secessione le condizioni di vita cambiarono, anche se la schiavitù venne definitivamente abolita da Abramo Lincoln soltanto nel 1863. A cambiare fu la coscienza del popolo nero e ciò fece sì che gli strumenti espressivi, tra cui il Blues, venissero utilizzati in maniera più ricca, a cominciare dalle liriche che acquisivano maggiore profondità ed erano sempre più intrise di storie di vita più complesse e personali.
Comunque, tracciare nitidamente le origini del blues è una autentica bèga perché il blues è una tradizione orale e non scritta. Alla domanda: da cosa è composto il Blues? E’ assolutamente precipuo è notare che il Blues, da un ottica prettamente tecnica, contiene elementi della musica africana come quali: il ritmo, l’uso di strumenti a corde, tecniche vocali come il falsetto e, non meno identificativo, l’appiattimento della terza e della settima nota nella scala pentatonica, caratteristiche che possono essere  trovate tutt’oggi in questo genere. Altro ingrediente essenziale del blues sound è il tempo. La ragione è semplice, il Blues è sempre stato una sorta di danza.
L’isolamento delle popolazioni di colore nel sud e la mancanza di comunicazione tra di esse ha  costituto un altro tratto storico-sociale che ha avuto ripercussioni nella musicalità del Blues, favorendo la nascita di numerosi stili, ognuno legato ad una regione o località. A titolo di esempio negli Usa si distinguono: il Mississipi Blues, il Texas Blues, Il Louisiana Blues, il Piedmont Blues, Il St. Louis Blues, il Memphis Blues, il Delta Blues ed altri stili caratterizzati da sottili sfumature.
L’influenza del Blues cominciò a dilatarsi quando nel 1912 William Christopher Handy pubblicò il suo ‘’Memphis Blues’’ seguito da ‘’St. Louis Blues’’.Questi non erano dei blues di origine rurale, come W.C. Handy aveva ascoltato durante un pomeriggio agli albori del XX secolo, bensì erano dei brani maggiormente compòsiti che contenevano solo dei frammenti di Blues.
In quel tempo era il Ragtime e successivamente il Jazz ad attrarre un nutrito numero di ascoltatori e, vorrei rimembrare, la prima registrazione di Jazz avvenne nel Gennaio del 1917 da parte del gruppo denominato ‘’The Original Jass Band’’.
Fu Peter Bradford, giovane di colore leader di un’orchestra di Atlanta, ad esortare Fred Hager della OKeh Record Company, a registrare la voce nera del contralto chiamato Mamie Smith la quale in quel periodo si esibiva solo per un pubblico di colore.
Così nel 1920 la OKeh produsse due brani della cantante intitolati:‘This Thing Called Love’ e ‘You can’t Keep A Good Man Down’, queste registrazioni non erano dei Blues ma qualcosa stava per accadere. Un anno dopo, infatti, la stessa cantante registrò Crazy Blues, un brano pop-blues, nel quale era accompagnata da un combo di jazzisti tra cui il leggendario Johnny Dunn alla tromba e Willie ‘’The Lion’’ Smith al piano. Grazie a questa registrazione furono vendute 75000 copie solo nel primo mese.
Tutto ciò ispirò molte altre etichette e, fino al 1925, furono registrati circa 250 brani Blues. Ad ogni modo mi preme far notare che inizialmente erano assenti registrazioni di artisti maschili. Agli albori il Blues era interpretato dalle cantanti femminili e questo periodo fu battezzato come ’’Classic Blues’’ che sfociava negli show circuit dei teatri del T.O.B.A.
Nel 1923 si affacciarono al grande pubblico le prime registrazioni di country-blues e, probabilmente, il primo artista ad essere registrato fu il leggendario Papa Charlie Jackson in concomitanza con  altri nomi come: Ed Andrews e Daddy Stovepipe. Nel 1925 subentra, nelle registrazioni, anche il grande Lonnie Johnson  seguito nel 1926 da due virtuosi della chitarra come: il texano Blind Lemon Jefferson ed il chitarrista della Florida Blind Blake.
Vorrei chiudere questo excursus storico sottolineando che nel decennio fra il 1920 e il 1930 l’attività discografica era riservata ad una manciata di etichette situate nel nord degli Stati Uniti. Questo fatto costringeva le stesse a compiere ripetuti viaggi al sud per immortalare gli artisti meridionali. La OKeh di New York compiva quelli che tecnicamente venivano denominati ’’field trips’’ in Atlanta, Georgia ed a San Antonio nel Texas. La Columbia registrava in Atlanta, a Dallas ed a New Orleans, come la Vocalition, etichetta di Chicago, che registrò a Memphis, Dallas e Atlanta.
Per ora chiudo la trattazione diacronica del genere in questione ritenendo quanto predetto una estrema sintesi indispensabile per comprendere l’essenza del Blues. Vorrei, a questo punto, passare alla trattazione del Blues suonato e lo farò estrapolando dal coacervo discografico delle registrazioni significative, a ragion del vero sarebbe da dire che il mercato discografico, seppur vasto, in termini di Blues smarrisce questa ampiezza per proporre una esigua produzione.
Inizierei a deliziare i timpani dei neofiti e venerandi della ’’musica del diavolo’’ con una registrazione di recente uscita: il disco del batterista Sam Carr intitolato ‘’Down in the Delta’.
L’etichetta che ci permette di gustare questo disco è la R.O.A.D  Records, piccola etichetta di Nashville nello Stato del Tenesse, città famosa non solo per il Blues ma anche per essere stata la culla della musica country.
La band è composta da musicisti che suonano spesso insieme nei juke joints e nei concerti. Oltre al leader Sam Carr, batterista della band, ci sono anche: l’ottimo Fred James alla chitarra ritmica, il notevole Andrew ‘’Shine’’ Turner alla chitarra solista e Dave Riley al basso elettrico.
Il Blues che scaturisce da questa session ci permette di raggiungere il profondo sud degli Stati Uniti, aprendoci uno spiraglio attraverso il quale poter saggiare l’atmosfera che si respira il sabato sera nei tanti juke joints del Meridione, dove il rito di mangiare e bere in comunità avviene in una cornice composta da un Blues aspro dalle figure geometriche semplici.
In chiaro stile deltaico l’apporto chitarristico di Andrew Turner. La sua chitarra è a tratti pugnace, soprattutto nei contrappunti al canto, talaltra ritmicamente ipnotica. Inoltre dalla penna dello stesso Turner escono sette degli undici brani che dimostrano un’ottima vena compositiva.
Buono anche l’apporto di Fred James alla seconda chitarra che si conferma un valido sessionman.
Il sincretismo tra il basso di D. Riley, la batteria di S. Carr e le due chitarre è la dimostrazione che questi personaggi si conoscono bene e si trovano a proprio agio l’uno accanto all’altro..
Tutti i quattro membri hanno fatto parte dei ‘’Jelly Roll Kings’’ gruppo che ha dominato il circuito bluesistico del meridione almeno fino alla scomparsa del suo compianto leader: l’armonicista e cantante Frank Frost.
Il secondo disco che vorrei introdurre ora è quello di Robert Jr. Lockwood, artista che, senza dubbio, rappresenta una delle autentiche leggende viventi del Blues. Basti dire che questo ‘’bluesman’’ appartiene a quella manciata di persone che possono vantare di aver affiancato nella vita e nella musica l’artista Blues per antonomasia, Robert Johnson.
Il disco del cantante e chitarrista Robert  Jr. Lockwood, intitolato ‘Legend Live’  è stato registrato dal vivo a Phoenix, nello stato dell’ Arizona, dall’ etichetta M.C. Records di Huntington ubicata nello Stato di New York.
Questa registrazione è composta da dodici brani che rappresentano un grosso pezzo di storia del Blues poiché scritti da veri e propri pilastri del genere musicale del calibro di Johnny Temple, cantante, Robert Johnson e Mance Lipscomb, chitarristi, Roosevelt Sykes e Leroy Carr, pianisti. Durante tutto il concerto traspare l’anima deltaica di R. Lockwood che dà vita ad un country-blues ligio ad una matrice down-home. Nonostante i suoi 89 anni è ragguardevole il piglio con il quale l’artista rispolvera questi dodici classici del blues riuscendo ad impreziosirli ulteriormente come pochi altri saprebbero fare.
Al di là di queste constatazioni Lockwood nel corso della sua carriera si è dimostrato uno degli artisti  più sofisticati avendo adottato un fraseggio e delle armonie di stampo squisitamente jazzistico. Ricercatissimo nelle registrazioni degli anni cinquanta e sessanta, il suo curriculum vanta prolifiche e memorabili collaborazioni in veste di sessionman con una nutrita schiera di musicisti fondamentali del blues: Sunnyland Slim, Little Walter, Willie Dixon, Muddy Waters, Rice Miller, Little Willie Anderson, gli Aces e Bo Diddley, solo per citarne alcuni.
La sua discografia come leader, invece, rimane piuttosto esigua. Realizzò il suo primo disco per la Delmark di Chicago nel 1970 accompagnato dai mitici Aces e firmò successivamente altri lavori con etichette come: la JOB, la Rounder, la defunta Trix records e la Verve.
Recentemente ha realizzato anche un disco per la Telarc dimostrandosi, ancora una volta, uno dei pochi superstiti tra gli araldi del blues rurale.
L’ultima constatazione su R. Lockwood è che, avendo percorso tutte le tappe fondamentali del blues, dalla sua conoscenza potrebbe essere creato un florilègio da consegnare ai posteri.
A questo punto, giunto all’epilogo della prima trattazione, vorrei svelare l’anima di questo genere musicale, il Blues appunto, che nasce da un rapporto intimale fra l’essere umano e la vita. In altre parole l’uomo è costretto dalle vicissitudini ad affrontare gli eventi che, in qualche modo, lo condizionano portandolo a provare sentimenti ad ampio spettro: la tristezza, la gioia, il malessere o la felicità. Ed è proprio da questi stati d’animo che l’artista crea un brano ( o più brani) consustanziale a questi momenti contingenti, così il Blues aiuta ad immortalare i (propri) sentimenti rendendoli inossidabili nel tempo.
Il Blues è una poesia popolare, talvolta, farcita di insistite considerazioni sui dettagli più feriali dell’orizzonte visivo, talaltra, invece, sonda i fondali più inesplorati dell’anima dove risiedono gli umbràtili stati d’animo che congiungono l’essere umano a questo mondo.
Nell’intersezione degli eventi nascono domande definitive che pretendono risposte altrettanto definitive. Il Blues non può e non deve colmare le voragini interiori che questi interrogativi generano. E’ la religione ed in particolar modo la fede che può rappresentare uno spiraglio che permetta al nostro mondo finito di trovare un punto di contatto con l’infinito, nell’intento, sovrumano, di sfiorare le verità che appartengono alle gerarchie celesti.
Attraverso le metafore, tratto essenziale del linguaggio Blues, che l’artista riesce ad astrarre la realtà con la finalità ultima di lenire l’anima dalle sofferenze estemporanee.
Per l’uomo vivere il presente prevedendo ciò che il domani gli porterà è, probabilmente, la sorte più elevata che possa spettare a chi vive sotto le stelle.
Alla prossima trattazione e ……..buon Blues a tutti.