Hector Zazou ‘L’absence’

(Santeria/Audioglobe 2004)

Difficile quando si parla di Hector Zazou scegliere in maniera netta tra le espressioni ‘elettronica colta’, ‘eclettismo congenito’ o ‘raffinato sperimentalismo’. Sta di fatto che ogni album dell’artista (compositore? Vale la pena esagerare con la parola ‘genio’ solo perché ognuno di questi sembra fare storia a sé?) francese colpisce più bersagli contemporaneamente conficcandosi sia negli anfratti emozionali quanto in quelli più razionalmente estetici di chi ascolta.
Le undici gemme ‘assenti’ nella sua ultima fatica non si sottraggono a tale dinamica nel loro debordare di intime pulsioni digitali, velate malinconie sintetico-analogiche, cangianti rilassatezze dub e trip hop di futura generazione. Basterebbe immergersi nella languida visionarietà di Trouble Fete o indugiare nella semplice contemplazione degli scenari sonori (più vicini alla categoria ‘soundtrack’ che a quella di brano autonomo) di Goeland per gridare al capolavoro. A queste si aggiungono poi le risacche ambientali irraggiate di luce aurorale della Etrangers Attracteurs in apertura, l’intensità comunicativa delle trepidanti vocals di Surrender o Paralysed, la sottile asprezza del collage di campioni di The Workers (tappeto per le disquisizioni marxiane di Katrina Beckford) e la dolcezza struggente – immaginate la migliore Sade geneticamente manipolata con il dna ricombinante dei Talk Talk di “Laughing Stock”– di Lies Will Flow.
Se è vero che non manca comunque qua e là qualche caduta di tono come il chill out un po’ troppo à la page di Joseph & Tim o gli echi nu jazz di Elle Est Si Belle, queste sembrano più dovute alla facile riconoscibilità dei riferimenti che alla qualità delle singole composizioni in sé. Il lavoro di Zazou si fregia poi, come era stato anche all’epoca di “Songs from the Cold Seas”, della presenza di un cast eccezionale fatto di conoscenze vecchie e nuove, alcune pregevolissime come Nicola Hitchcock (Mandalay) o Caroline Lavelle (violoncellista di Radiohead e Peter Gabriel) e altre quantomeno spiazzanti nel loro implicito contributo all’odierno blob mediatico purtroppo privato dell’appeal Wahroliano dei tempi che furono (Asia Argento in Double Jeu che recita la prima scena del Godardiano “Il Disprezzo”, capriccio o freddo calcolo?).
Ma considerazioni strategiche e ‘cronache di successi annunciati a parte’, quello che vi resterà tra le mani è un disco electro di difficilissima archiviazione, di seducente bellezza, di sopraffina ispirazione.
Non dico altro.

Voto: 9

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