Satoko Fujii ‘Bell The Cat!’


(Tokuma 2002)

Satoko Fujii, nonostante nelle nostre spiagge sia poco conosciuta, ha già alle spalle una mole impressionante di dischi, il più noto dei quali è sicuramente “Kisune-Bi” su Tzadik (ma segnalo anche “To-Kichi” su Victo, dal momento che è inciso in duo con il batterista dei Ruins Tatsuya Yoshida). Come pianista miscela la tradizione bianco / nera del jazz, ereditata da Thelonious Monk, Cecil Taylor, Paul Bley e Marilyn Crispell, con quella giapponese dei kotoisti (ma trovo che in certi passaggi abbia addirittura un tocco chopiniano). “Bell The Cat!”, che risale allo scorso anno e rappresenta un valido momento per fare la sua conoscenza, non so se può essere definito come il gatto sornione che appare nell’esterno di copertina o come il vispo topolino dell’interno, ma probabilmente è entrambi. Silence deriva forse il nome dalle rarefatte battute iniziali, dacché lo sviluppo dei 15 minuti di durata è anche imprevedibilmente violento e aspramente dissonante. Altri due tour de force, 11 e 9 minuti rispettivamente, sono Slowly And Slowly e Confluence. Il primo ha un inizio molto d’atmosfera, con i piatti che creano una nebbia di sottofondo su cui si muove l’oscura marcia pianistica iniziale, segue un crescendo in compattezza che però si mantiene sempre su tempi medio-lenti. In Confluence, invece, è un suono di campanellini che fa da sfondo al dialogo fra contrabbasso e pianoforte, con la finestra che viene aperta su intrecci sempre più complessi e concitati, fino a un’esplosione ammantata di follia novecentesca. Get Along Well With… paga, nelle sue sincopi e fin dal titolo, il dovuto tributo a Monk. Foot Step è un rarefatto notturno, delicatamente giocato sull’intreccio dei tre strumenti, fatto di piccoli tocchi dove le intenzioni sono più importanti della messa in opera. Bell The Cat! è il brano più tirato, con nel finale un crescendo cacofonico da sballo. Champloo, infine, è un divertente schema folk che pare giocato su strumenti giocattolo. Peccato che il costo quasi proibitivo lo renda disappetibile, perché si tratta di un gran bel disco. Dimenticavo quasi di dire della stratosferica sezione ritmica formata da Mark Dresser al basso, che regala alcuni momenti all’archetto di impareggiabile bellezza, e dall’incontenibile Jim Black alla batteria. (no ©)

Voto: 8

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Autore: sos.pesa@tin.it